Solo i futuristi furono in grado di cogliere appieno le istanze di modernità insite non solo nella nuova sfida del volo, ma, genericamente, della scienza in senso lato. Infatti, quando, all’inizio degli anni Dieci, Marinetti “lanciava” i suoi primi proclami teorici e programmatici, i manifesti futuristi, le manifestazioni della fase pionieristica dell’aviazione erano già divenute popolari anche in Italia, richiamando sui prati di periferia delle principali città,  migliaia di curiosi che con il naso all’insù ammiravano quelle prime, incerte, evoluzioni di apparecchi realizzati in legno di balsa, cartone e pelle. Infatti, dopo i voli dimostrativi di Delagrange, nel 1908, erano sorti un po’ dappertutto vari “concorsi” aerei, ovvero raduni con dimostrazioni ed evoluzioni definite “acrobatiche”: a Brescia nel 1909, a Milano, Verona, Firenze e Palermo nel 1910, a Torino nel 1911, solo per citarne alcuni. Così quei primi, traballanti, aeroplani ben presto soppiantarono anni e anni di tradizioni aerostatiche, e in un attimo i grandi e policromi palloni alla “Montgolfier” furono spediti in cantina. Tuttavia il Futurismo forse non era completamente pronto in questo slancio verso il cielo e verso il futuro, nel senso che in un primo momento tutto questo fervore aviatorio filtrò nel Futurismo quasi esclusivamente nell’ambito letterario, rimanendone invece la pittura pressoché indenne da ogni influenza, forse perché troppo impegnata, all’epoca, nella definizione di uno stile “proprio”. Il Futurismo, infatti, nel suo bruciare tappe e tempi, spesso lanciava troppo avanti il sasso delle sue provocazioni, o delle sue invenzioni.
Tra queste, appunto, la pittura futurista che fu annunciata ben prima che uno stile futurista vero e proprio fosse stato delineato sulla tela. E, di fatto, la prima stagione futurista, che va dal 1909 al 1915, da un punto di vista pittorico fu essenzialmente Boccioni-centrica, nel senso che la prorompente personalità di Umberto Boccioni ne condizionò pesantemente uno sviluppo più polifonico. Continua la lettura dell'articolo

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Umberto Boccioni
1882-1916

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Testo tratto da: Futurismo. Progresso. Volo di Maurizio Scudiero

MANIFESTO DEI PITTORI FUTURISTI

Come premessa occorre fare una distinsione tra "Il Manifesto dei Pittori futuristi" e "La pittura futurista. Manifesto tecnico". Uno sta all’altro come la teoria alla pratica: il primo enuncia i principi generali, l’altro elenca e approfondisce spunti tecnici e programmatici. Il primo manifesto della pittura futurista è il Manifesto dei Pittori futuristi, in lingua italiana, sottoscritto da Umberto Boccioni, Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, Aroldo Bonzagni e Romolo Romani, che viene letto l’8 marzo 1910 al Politeama Chiarella di Torino durante la terza serata futurista. In esso si legge:
11 Febbraio 1911. Agli artisti giovani d'Italia!
Il grido di ribellione che noi lanciamo, associando i nostri ideali a quelli dei poeti futuristi, non parte già da una chiesuola estetica, ma esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall'esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all'entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l'abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un'abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro. Noi siamo nauseati dalla pigrizia vile che dal Cinquecento in poi fa vivere i nostri artisti d'un incessante sfruttamento delle glorie antiche. Per gli altri popoli, l'Italia è ancora una terra di morti, un'immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L'Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggono ormai officine innumerevoli: nel paese dell'estetica tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità. È vitale soltanto quell'arte che trova i propri elementi nell'ambiente che la circonda. Come i nostri antenati trassero materia d'arte dall'atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell'ignoto. E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell'apache e dell'alcoolizzato? Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d'arte, dichiariamo guerra, risolutamente, a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che pur camuffandosi d'una veste di falsa modernità, rimangono invischiati nella tradizione, nell'accademismo e sopratutto in una ripugnante pigrizia cerebrale. Noi denunciamo al disprezzo dei giovani tutta quella canaglia incosciente che a Roma applaude a una stomachevole rifioritura di classicismo rammolito; che a Firenze esalta dei nevrotici cultori d'un arcaismo ermafrodito; che a Milano rimunera una pedestre e cieca manualità quarantottesca; che a Torino incensa una pittura da funzionari governativi in pensione, e a Venezia glorifica un farraginoso patinume da alchimisti fossilizzati! Insorgiamo, insomma, contro la superficialità, la banalità e la facilità bottegaia e cialtrona che rendono profondamente spregevole la maggior parte degli artisti rispettati di ogni regione d'Italia. Via, dunque, restauratori prezzolati di vecchie croste! Via, archeologhi affetti di necrofilia cronica! Via, critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori ubbriaconi e ignoranti! Via! Domandate a questi sacerdoti del vero culto, a questi depositari delle leggi estetiche, dove siano oggi le opere di Giovanni Segantini: domandate loro perchè le Commissioni ufficiali non si accorgano dell'esistenza di Gaetano Previati; domandate loro dove sia apprezzata la scultura di Medardo Rosso!... E chi si cura di pensare agli artisti che non hanno ancora vent'anni di lotte e di sofferenze, ma che pur vanno preparando opere destinate ad onorare la patria? Hanno ben altri interessi da difendere, i critici pagati! Le esposizioni, i concorsi, la critica superficiale e non mai disinteressata condannano l'arte italiana all'ignominia di una vera prostituzione! E che diremo degli specialisti? Suvvia! Finiamola, coi Ritrattisti, cogl'Internisti, coi Laghettisti, coi I manifesti del futurismo 13 Montagnisti!... Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura. Finiamola con gli sfregiatori di marmi che ingombrano le piazze e profanano i cimiteri! Finiamola con l'architettura affaristica degli appaltatori di cementi armati! Finiamola coi decoratori da strapazzo, coi falsificatori di ceramiche, coi cartellonisti venduti e cogli illustratori sciatti e balordi. Ed ecco le nostre conclusioni recise: Con questa entusiastica adesione al futurismo, noi vogliamo: 1. Distruggere il culto del passato, l'ossessione dell'antico, il pedantismo e il formalismo accademico. 2. Disprezzare profondamente ogni forma di imitazione. 3. Esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima. 4. Trarre coraggio ed orgoglio dalla facile taccia di pazzia con cui si sferzano e s'imbavagliano gl'innovatori. 5. Considerare i critici d'arte come inutili o dannosi. 6. Ribellarci contro la tirannia delle parole: armonia e buon gusto, espressioni troppo elastiche, con le quali si potrebbe facilmente demolire l'opera di Rembrandt e quella di Goya. 7. Spazzar via dal campo ideale dell'arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati. 8. Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerarî!

BOCCIONI, CARRA', RUSSOLO, BALLA, SEVERINI LA PITTURA FUTURISTA Manifesto tecnico 11 aprile 1910 Nel primo manifesto da noi lanciato l'8 marzo 1910 dalla ribalta del Politeama Chiarella di Torino, esprimemmo le nostre profonde nausee, i nostri fieri disprezzi, le nostre allegre ribellioni contro la volgarità, contro il mediocrismo, contro il culto fanatico e snobistico dell'antico, che soffocano l'Arte nel nostro Paese. Noi ci occupavamo allora delle relazioni che esistono fra noi e la società. Oggi invece, con questo secondo manifesto, ci stacchiamo risolutamente da ogni considerazione relativa e assurgiamo alle più alte espressioni dell'assoluto pittorico. La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne. Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un'opera d'arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna farla: bisogna farne l'atmosfera. Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s'inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Chi può credere ancora all'opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X? Innumerevoli sono gli esempi che dànno una sanzione positiva alle nostre affermazioni. Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro, tre; stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano. La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro. Come in tutti i campi del pensiero umano alle immobili oscurità del dogma è subentrata la illuminata ricerca individuale, così bisogna che nell'arte nostra sia sostituita alla tradizione accademica una vivificante corrente di libertà individuale. Noi vogliamo rientrare nella vita. La scienza d'oggi, negando il suo passato, risponde ai bisogni materiali del nostro tempo; ugualmente, l'arte, negando il suo passato, deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo. La nostra nuova coscienza non ci fa più considerare l'uomo centro della vita universale. Il dolore di un uomo è interessante, per noi, quanto quello di una lampada elettrica, che soffre, e spasima, e grida con le più strazianti espressioni di colore; e la musicalità della linea e delle pieghe di un vestito moderno ha per noi una potenza emotiva e simbolica uguale a quella che il nudo ebbe per gli antichi. Per concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno bisogna che l'anima ridiventi pura; che l'occhio si liberi dal velo di cui l'hanno coperto l'atavismo e la coltura e consideri come solo controllo la Natura, non già il Museo! Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l'azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli! Come si può ancora veder roseo un volto umano, mentre la nostra vita si è innegabilmente sdoppiata nel nottambulismo? Il volto umano è giallo, è rosso, è verde, è azzurro, è violetto. Il pallore di una donna che guarda la vetrina di un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che l'affascinano. Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali. I vostri occhi abituati alla penombra si apriranno alle più radiose visioni di luce. Le ombre che dipingeremo saranno più luminose delle luci dei nostri predecessori, e i nostri quadri, a confronto di quelli immagazzinati nei musei, saranno il giorno più fulgido contrapposto alla notte più cupa. Questo naturalmente ci porta a concludere che non può sussistere pittura senza divisionismo. Il divisionismo, tuttavia, non è nel nostro concetto un mezzo tecnico che si possa metodicamente imparare ed applicare. Il divisionismo, nel pittore moderno, deve essere un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale. E in fine respingiamo fin d'ora la facile accusa di barocchismo con la quale ci si vorrà colpire. Le idee che abbiamo esposte qui derivano unicamente dalla nostra sensibilità acuìta. Mentre barocchismo significa artificio, virtuosismo maniaco e smidollato, l'Arte, che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza. NOI PROCLAMIAMO: l.Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica; 2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; 3. Che nell'interpretazione della natura occorrono sincerità e verginità; 4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi. NOI COMBATTIAMO: 1. Contro il patinume e la velatura da falsi antichi; 2. Contro l'arcaismo superficiale ed elementare a base di tinte piatte che riduce la pittura ad una impotente sintesi infantile e grottesca; 3. Contro il falso avvenirismo dei secessionisti e degli indipendenti, nuovi accademici d'ogni paese; 4. Contro il nudo in pittura, altrettanto stucchevole ed opprimente quanto l'adulterio nella letteratura. Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i Primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata. Fuori dall'atmosfera in cui viviamo noi, non sono che tenebre. Noi futuristi ascendiamo verso le vette più eccelse e più radiose, e ci proclamiamo Signori della Luce, poiché già beviamo alle vive fonti del Sole.

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UMBERTO BOCCIONI
1882 - 1916

Umberto Boccioni, è stato pittore, scultore futurista e inventore del Dinamismo Plastico. L'artista nasce a Reggio Calabria il 19 ottobre 1882, ma trascorre infanzia ed adolescenza in varie città perché il padre, impiegato statale, è costretto a frequenti spostamenti. La famiglia è originaria di Forlì, ma si trasferisce a Genova, poi a Padova nel 1888 ed in seguito a Catania nel 1897, dove Umberto consegue il Diploma all'Istituto Tecnico. Nel 1899 va a vivere a Roma presso una zia e frequenta la Scuola Libera del Nudo, lavorando presso lo studio di un cartellonista. In questo periodo il giovane pittore, dallo stile molto realista, conosce l'altrettanto giovane Gino Severini e con lui frequenta lo studio di Giacomo Balla (che in quegli anni, a Roma, è un maestro molto famoso), per approfondire la ricerca sulle tecniche divisioniste. Dal 1903 al 1906 Umberto Boccioni partecipa alle esposizioni annuali della Società Amatori e Cultori, ma nel 1905 in polemica con il conservatorismo delle giurie ufficiali, organizza con Severini, nel foyer del Teatro Costanzi, la "Mostra dei rifiutati". Per sfuggire l'atmosfera provinciale italiana, nella primavera del 1906 Boccioni si reca a Parigi, dove rimane affascinato dalla modernità della metropoli. Da Parigi, dopo alcuni mesi, fa un viaggio in Russia, prima di tornare in Italia e stabilirsi a Padova per iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si laurea. Per conoscere a fondo le nuove correnti pittoriche, derivate dall'evoluzione dell'Impressionismo e del Simbolismo, Boccioni intraprende un altro viaggio fermandosi a Monaco, dove incontra il movimento "Sturm und drang" tedesco e subisce l'influsso dei Preraffaelliti inglesi. L'Italia del primo Novecento ha una vita artistica ancora ancorata alle vecchie tradizioni, ma Milano è diventata una città dinamica, ed è qui che Boccioni si stabilisce al ritorno dal suo ultimo viaggio in Europa per sperimentare, sotto l'influenza del Divisionismo e del Simbolismo, varie tecniche. Dal gennaio 1907 all'agosto 1908, Umberto Boccioni tiene un dettagliato diario nel quale annota gli esperimenti stilistici, i dubbi e le ambizioni che scuotono l'artista che si barcamena fra il divisionismo, il simbolismo, verso il Futurismo, dipingendo ritratti, dipinti a carattere simbolico e qualche veduta di città. Finalmente Boccioni, dopo aver conosciuto Marinetti, si avvicina al movimento avanguardista e, nel 1910 scrive, con Carlo Carrà e Luigi Russolo, il "Manifesto dei pittori futuristi" ed il "Manifesto tecnico della pittura futurista", firmati anche da Severini e Balla. Boccioni modernizza lo stile pittorico utilizzando un linguaggio proprio, mentre partecipa attivamente a tutte le iniziative futuriste diventando il pittore più rappresentativo di questa corrente. Allestisce, nelle varie capitali europee, Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles, mostre dei pittori futuristi e scrive il "Manifesto della scultura futurista", dove espone le sue teorie sulla simultaneità e sul dinamismo, già parzialmente espressa nel "Manifesto tecnico della pittura futurista". Umberto Boccioni suggerisce l'impiego in una stessa opera di materiali diversi, come il legno, la carta, il vetro ed il metallo, cominciando ad incorporare frammenti di oggetti nei modelli in gesso delle sculture. Dal 1912, anno della prima esposizione futurista a Parigi, presso la Galerie Bernheim-Jeune, Boccioni applica il concetto di "Dinamismo plastico" anche alla scultura, mentre continua lo studio del dinamismo del corpo umano, attraverso una lunga serie di disegni ed acquarelli. Dal 1913, collabora alla rivista "Lacerba", organizzata dal gruppo futurista fiorentino capeggiato da Ardengo Soffici, ma il Dinamismo Plastico incontra l'ostilità di alcuni ambienti culturali futuristi ed il disinteresse del pubblico. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Umberto Boccioni, come molti intellettuali, è favorevole all'entrata in guerra dell'Italia, si arruola volontario nel Battaglione Lombardo Ciclisti e parte per il fronte con Marinetti, Russolo, Sant'Elia e Sironi. Il suo battaglione è disciolto nel dicembre 1915 e, nel luglio dell'anno successivo, Boccioni viene assegnato all'artiglieria da campo e destinato a Verona. Applicando il Dinamismo plastico ai suoi dipinti, Umberto Boccioni abbandona l'impostazione tradizionale fondendo interno ed esterno, i dati reali e quelli del ricordo in una singola immagine. Con questo intento sviluppa le caratteristiche "linee-forza" che tracciano le traiettorie di un oggetto in movimento nello spazio. Negli anni di guerra Umberto Boccioni collabora con la rivista "Avvenimenti" e si riavvicina al suo vecchio maestro Balla; il suo personalissimo stile alla ricerca di dinamismo, lo porta ad accostarsi all'Espressionismo ed al Cubismo allo scopo di mettere lo spettatore al centro del quadro per farlo sentire coinvolto e partecipe. Umberto Boccioni diventa l'artista che meglio degli altri sa ritrarre la vita moderna, frettolosa e stressante, di cui la macchina in movimento è il simbolo principale. Il 17 agosto 1916 Boccioni muore dopo una caduta da cavallo a Bosco del Mantico (Verona), nel pieno della sua rivoluzione pittorica che lo aveva portato dal Futurismo al Dinamismo Plastico. (da: www.settemuse.it)

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CRESCENZAGO (MI)

L’ingegner Enrico Forlanini, effettuò il volo inaugurale del suo dirigibile, il 9 luglio 1909, dal cantiere con hangar a Crescenzago, vicino a Cascina Gobba. L’hangar ed i prati utilizzati per le operazioni di decollo sembra accertato che fossero tra Crescenzago e la Gobba, ad oggi è difficile identificarne con certezza il luogo esatto. Si protende per dei terreni verso Cimiano, tra l’attuale parcheggio della metropolitana e la tangenziale.




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UMBERTO BOCCIONI, AUTORITRATTO, 1908
Olio su tela 70 x 100
Pinacoteca di Brera, Milano

Il celebre Autoritratto rivela sul retro un precedente e meno noto Autoritratto, databile 1906, nascosto dal pittore stesso perché ritenuto non soddisfacente. Il restauro, realizzato nel 2017, è stato occasione per approfondire la conoscenza dell’opera e delle sue vicende conservative. L’Autoritratto è realizzato con una tecnica divisionista, mediante brevi pennellate giustapposte di colori puri, con spessori e andamento variabili; Per suggerire la diversità delle superfici il maestro variò spessore e andamento dei segni dipinti. I colori dell’Autoritratto del 1908 di Umberto Boccioni sono brillanti e la composizione equilibrata tra toni caldi e freddi. Gli edifici infatti sono colorati in giallo chiaro e riflettono la luce del pallido sole invernale. Anche la strada, il cappotto, il viso e i tetti sono trattati con pennellate color arancione. Sul volto si infittiscono tratti di rosso che ravvivano i connotati dell’artista. I toni freddi sono presenti nel cielo azzurro, sugli infissi dei palazzi. Inoltre creano effetti di luminosità nel tessuto del cappotto e nelle ombre del viso. Boccioni avvicina pennellate di colori complementari per aumentare il movimento luminoso delle superfici. Sul cappotto infatti si notano interventi arancione accanto a pennellate azzurre. Questo contrasto di complementarità è diffuso su tutta l’opera e sarà ripreso nei lavori successivi. La figura di Boccioni riempie tutta la metà destra del dipinto. Il busto, così in primo piano, confrontato con le dimensioni dei palazzi che si rimpiccioliscono verso l’orizzonte crea un efficace effetto di profondità. La prospettiva di grandezza contribuisce inoltre a creare le distanze. Agiscono anche la prospettiva di sovrapposizione e di innalzamento dal bordo inferiore del dipinto. L’orizzonte si trova sulla linea di metà del dipinto.
L’opera sembra progettata sulla base di una suddivisione in quattro quadranti del piano pittorico. A sinistra in alto si trova il cielo, poi, in senso orario, il viso dell’artista, quindi il suo busto e infine i cantieri nuovamente a sinistra. Il centro delle diagonali coincide con la spalla destra di Boccioni e con l’angolo creato in basso dalla facciata del palazzo che si intravede dietro di lui. Questa rigida e frontale composizione di linee ortogonali è interrotta dalle oblique della strada e dalla fuga prospettica degli edifici di sinistra. Nel dipinto Boccioni si ritrae su un balcone che affaccia sul paesaggio suburbano della periferia milanese, in quella che nel 1908 era la sua abitazione di Via Castel Morrone, angolo via Goldoni. Sullo sfondo case in costruzione e un treno che percorre il cavalcavia Acquabella, oggi demolito, nei pressi dell’attuale piazza Maria Adelaide di Savoia, anticipazione delle tematiche futuriste degli anni successivi. Il pittore in un appunto del 13 maggio 1908 si dichiara insoddisfatto della sua opera: “Dal primo del mese mi trovo in casa di mamma, lontano da quell’antipaticissima padrona e mi trovo abbastanza bene. In quella casa ho finito l’autoritratto che mi lascia completamente indifferente”.




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UMBERTO BOCCIONI, RISSA IN GALLERIA, 1910
Olio su tela 76 x 64
Pinacoteca di Brera, Milano

“Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido, Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”.
Questa frase si trova nel Manifesto dei pittori futuristi del 1910. Boccioni, ha impresso nelle sue tele il movimento e il fermento della vita e delle emozioni della modernità e nell’opera intitolata Rissa in Galleria, che rappresenta tutta l’energia e il movimento di una fase della pittura boccioniana già futurista, ma ancora stilisticamente lontana dai modelli che verranno sviluppati dopo il confronto diretto con le nuove avanguardie artistiche parigine. Il soggetto dell’opera è una rissa tra due prostitute davanti a un caffè della Galleria Vittorio Emanuele II, nel centro di Milano, dove sotto la luce dei nuovi lampioni elettrici, una disordinata folla si assiepa intorno alla piccola scena. Uno dei tratti che caratterizzano le “avanguardie artistiche”, infatti, è la provocazione e in questo quadro la provocazione è proprio nell’insolito protagonismo delle due donne protagoniste, il cui litigio agli inizi del ‘900 doveva essere piuttosto insolito e suscitare scandalo. Ma la rissa è solo un pretesto per raccontare la città, nella sua interezza, che esplode e implode di modernità e movimento, usando la luce dalle lampade e quella proveniente dall'interno del caffè e il dinamismo dei personaggi antistanti, che passa dalla rappresentazione del singolo a quella della folla come entità viva e dotata di un'anima propria. Il quadro ha una luce particolarmente efficace e le persone trasmettono un senso di movimento come se la “folla” avesse un solo pensiero, fosse un solo soggetto. La luce, la prima protagonista citata, inonda la scena, vibrante di cangiantismi cromatici, a loro volta fondati su un'attenta applicazione del divisionismo, la tecnica pittorica diffusa in Italia alla fine dell’Ottocento che Boccioni aveva appreso da Gaetano Previati, uno dei più apprezzati e attivi artisti italiani, e da Giacomo Balla, del gruppo futurista romano, cui si somma il movimento, visto nella concitazione dinamica dell'evento, con un'ideale fusione tra la folla sovraeccitata e la vibrazione della città tutt'intorno. Ma Rissa in galleria è anche la testimonianza storica della Milano alle soglie della Grande Guerra, riassumendo in sé i contrasti di una metropoli in profondo cambiamento, come dimostra la scena del bar dove è ambientata la rissa, lo storico Caffè Campari, un pezzo della storia ambrosiana, che lo stesso Boccioni frequentava quotidianamente. Quando Boccioni dipinge Rissa in Galleria, tra il 1910 e il 1911, era appena tornato da Parigi e la Milano in cui si trova a vivere è dinamica e sta rapidamente diventando una città moderna, produttiva dal punto di vista industriale ed efficiente per gli scambi commerciali.
È con quest’opera che il Boccioni inizia il passaggio verso forme di comunicazioni di orientamento più espressionistico, come confermano i dipinti realizzati subito a ridosso di quello in esame, cioè “La Retata” (1910) e “La Baruffa” (1911), che faranno da tramite per passare agli “Stati d’animo” in una chiave prettamente psicologica rifiutandone però l’espressione spaziale. Questo rifiuto porterà l’artista a non volersi staccare del tutto dalle impostazioni divisionistiche che permarranno ancora negli anni a venire, pur tuttavia con un cromatismo acceso di puro stampo espressionista.




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UMBERTO BOCCIONI, CITTA' CHE SALE, 1910
Olio su tela 199,3 x 301
Museum of Modern Art di New York

La città che sale è un dipinto che si ispira alla costruzione di una centrale elettrica nella periferia di Milano. In primo piano è rappresentato un cavallo, per quasi tutta la metà destra del dipinto. L’animale trascina un peso legato a delle briglie. Alcuni operai davanti a lui, di fianco e dietro assecondano e incitano il movimento in avanti. Di fronte a questo cavallo si trovano altri due cavalli uno bianco e uno rosso. Un operaio, a sinistra, frena, invece, il cavallo bianco che si trova opposto a quella in primo piano. Sullo sfondo ferve l’attività degli operai e si intravedono altri cavalli che portano avanti i carichi. L’edificio, ancora in fase di costruzione è circondato dalle impalcature e svetta su tutte le figure. Può essere considerata la prima opera pienamente futurista di Boccioni. Il soggetto non si discosta molto da analoghi quadri, realizzati negli anni precedenti, che avevano come soggetto le periferie urbane. Qui, tuttavia, il naturalismo dei quadri precedenti viene meno per lasciare il posto ad una visione più dinamica e movimentata. Solo nella parte superiore del quadro è possibile cogliere una visione da periferia urbana con dei palazzi in costruzione, impalcature e ciminiere. La gran parte del quadro è invece occupata da uomini e cavalli che si fondono in un esasperato sforzo dinamico. Vengono così messi in risalto alcuni elementi tipici del futurismo: l’esaltazione del lavoro umano e l’importanza della città moderna come luogo plasmato sulle esigenze dell’uomo futuro. Ma ciò che rende il quadro un’immagine in linea con lo spirito futurista è soprattutto l’esaltazione visiva della forza e del movimento. Tuttavia, protagonisti di questi sforzi sono uomini e cavalli, non macchine. Questo particolare attesta come Boccioni si muova ancora in coordinate simboliste: l’immagine rende visibile il mito. Ciò che l’artista modifica sostanzialmente è invece proprio il «mito»: non più quello arcaico legato all’esplorazione del mondo psicologico dell’uomo ma il mito dell’uomo moderno come artefice di un mondo nuovo. La tecnica pittorica che egli utilizza è ancora quella del divisionismo. Le pennellate a tratteggio hanno andamenti direzionati funzionali non alla costruzione di masse e volumi ma alla evidenziazione delle linee di forza che caratterizzano i movimenti delle figure. Il cavallo di grandi dimensioni, in primo piano, è costruito con pennellate di tonalità rossa e arancio accostate e orientate secondo la forma dell’animale. La sua criniera sembra una parabola fiammeggiante rivolta verso sinistra. Il giogo dell’animale è, invece, di colore blu elettrico. Gli operai in primo piano, quello centrale e quello di destra, indossano dei giubbotti giallo-arancio e dei pantaloni blu. A sinistra predominano colori più chiari. Il cavallo è bianco con sfumature blu e azzurre, tendenti al viola. L’operaio che lo trattiene è a torso nudo, di colore rosa scuro. Nel primo piano, sulla strada le ombre sono colorate di blu e azzurro mentre le zone di sole bianco e giallo. Sul fondo si ripetono gli stessi colori blu per i gioghi degli animali e rosso acceso, con punte di arancio, e giallo per i cavalli. Anche le costruzioni a destra e a sinistra sono tendenti all’arancio lumeggiato di giallo. Il cielo è bianco con sprazzi di azzurro e sbuffi di fumo blu violetto che escono dalle ciminiere che punteggiano il cielo. La composizione del quadro conserva ancora un impianto in parte tradizionale. La scansione delle figure avviene su precisi piani di profondità con in basso le figure in primo piano e in alto le immagini sui piani più profondi. Il quadro si divide sostanzialmente in tre fasce orizzontali corrispondenti ad altrettanti piani. Nel primo in basso Boccioni colloca le figure umane: sono realizzate secondo linee oblique per evidenziare lo sforzo dinamico che esse compiono. Nel secondo al centro dominano alcune figure di cavalli. In particolare ne campeggiano tre: uno bianco a sinistra che guarda verso destra, uno al centro che domina la posizione centrale del quadro, ed uno sulla destra. Nel terzo piano compare lo sfondo di una periferia urbana.




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UMBERTO BOCCIONI, STATI D'ANIMO NR. 1, 1910
Olio su tela 71,2 x 94,2
Museum of Modern Art di New York

Che Boccioni sia interessato all’espressione delle interiorità psicologiche viene ampiamente confermato dai suoi trittici intitolati «Stati d’animo». L’opera si compone di tre quadri, intitolati: «Gli addii», «Quelli che vanno», «Quelli che restano». Del trittico, Boccioni ha eseguito due diverse versioni. La prima, risalente al 1910, utilizza ampiamente la tecnica divisionista, dando alle immagini una risoluzione prevalentemente coloristica. Nella seconda versione, posteriore al suo viaggio a Parigi, è invece avvertibile l’influenza della pittura cubista. La prima versione de «Gli addii» è attualmente conservata al Cimac di Milano. La seconda versione è invece in possesso del Museum of Modern Art di New York. Noi ci occuperemo di questa seconda tela. Il quadro ha per contenuto delle persone che si salutano, abbracciandosi, sullo sfondo di treni e paesaggi ferroviari. Il quadro è diviso verticalmente in due parti dall’immagine frontale di una locomotiva a vapore. Nella metà di destra sono visibili diversi vagoni ferroviari, quasi trasparenti e intersecati tra loro, ma di cui sono chiaramente individuabili le linee costruttive di contorno. Nella metà di sinistra appare invece l’immagine di un traliccio della corrente elettrica e la linea ondulata delle colline. È il tipico paesaggio che si coglie, in genere, dal finestrino di un treno in corsa. Anche il numero, scritto al centro, rimanda ad una immagine ferroviaria: esso è realizzato con gli stessi caratteri che contrassegnano i vagoni ferroviari. Nella parte inferiore del quadro si intravedono diverse sagome di persone che si abbracciano e si salutano. Hanno un aspetto molto stilizzato e sono visti da diverse angolazioni. Sembrano smaterializzarsi nel vapore che fuoriesce dalla caldaia del treno a vapore. L’immagine vuole quindi rappresentare la memoria immediata di chi, dopo aver salutato delle persone, inizia un viaggio in treno. Nella sua mente si sovrappongo le immagini del treno, del paesaggio che percepisce in corsa, e il ricordo dei saluti che ha appena scambiato con chi è rimasto nella stazione. L’intersezione e la sovrapposizione di questi elementi avviene con molto equilibrio, ricorrendo sia alle scomposizioni tipiche del cubismo, sia alla compenetrazione dei corpi teorizzata dal futurismo. Ciò che unifica il quadro è la dominante verde, utilizzata in varie gamme, ma sempre su toni spenti. In questo caso il verde ha un valore tipicamente espressionistico: materializza lo stato d’animo sobrio e mesto di chi ha appena intrapreso un viaggio con la sensazione del distacco da persone care. In questo verde Boccioni inserisce il complementare rosso, sempre su tonalità spente, secondo linee ondulate che sembrano materializzare il senso di ondeggiamento del treno in movimento che dà forma ondulata alla percezione della realtà circostante. La grande maestria di Boccioni sta nel sintetizzare, e far proprie, più suggestioni stilistiche, che egli riesce a padroneggiare con misura e sintesi. In questo quadro vi ritroviamo il futurismo, il cubismo, l’espressionismo, tutto miscelato in una tecnica esecutiva che è ancora divisionista. Ma il quadro riesce pienamente nel suo intento di dare immagine a qualcosa di assolutamente immateriale come uno stato d’animo. (www.francescomorante.it)




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UMBERTO BOCCIONI, FORME UNICHE NELLA CONTINUITA' DELLO SPAZIO, 1913
111 x 88
Museum of Contemporary Art, University of São Paulo

Boccioni approfondisce la ricerca sul dinamismo, che nel 1912 lo porta a sperimentare la scultura. Secondo l'artista, la scultura deve far vivere gli oggetti rendendo sensibile e materializzando il loro prolungamento nello spazio per effetto del movimento. L'oggetto è concepito come entità infinita. E' qualcosa che non finisce e non ha limiti perchè con il suo movimento si propaga nello spazio, appartiene allo spazio e diventa spazio, mentre lo spazio vive nell'oggetto. L'ambiente deve quindi formare un blocco unico con il soggetto plastico, si potrà così attuare una compenetrazione dinamica tra figura e spazio. Questo è quello che Boccioni realizza in Forme uniche nella continuità dello spazio. Dell'opera, realizzata nel 1913, esiste la versione originale, in gesso, conservata a New York e alcune versioni fuse in bronzo, conservate in diversi musei, tra cui la Collezione Mattioli di Milano e una collezione privata di Roma. In questa figura è come se la scia del corpo in corsa che attraversa lo spazio, si solidificasse. C'è una simultaneità delle fasi del movimento che nella realtà vengono scandite dal tempo. Il tempo viene eliminato in una sorta di condensazione, i momenti consecutivi si fondono in un momento unico e atemporale dove c'è una velocità ''congelata''. Eliminando il tempo che separa, divide le fasi del movimento della visione sequenziale, Boccioni realizza una sintesi tra figura e spazio. La continuità tra figura e spazio esiste perchè la figura è viva, si muove e il suo dinamismo le permette di diventare "continua", quindi infinita, nello spazio. (www.geometriefluide.com)




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UMBERTO BOCCIONI, CARICA DI LANCIERI, 1915
tempera e collage su carta, 32x50
Museum of Contemporary Art, University of São Paulo

Qui ogni cosa è movimento, forza, dilatazione e compenetrazione. Qui, sul campo di battaglia come sulle polverose piste dove sfrecciano gli automobili dai motori arrembanti, come nei cieli bassi solcati da velivoli con le ali di carta. La vita è un gioco, allegro e rumoroso. Questo dipinto di piccole dimensioni, uno degli ultimi realizzati da Umberto Boccioni raffigura una carica di lancieri e fa parte di una serie di dipinti di esponenti del movimenti futurista, tesi ad esaltare la guerra e favorevoli all'entrata in guerra dell'Italia (siamo nel 1915). L'opera corrisponde ad una visione eroica ed esaltante della guerra (che Marinetti definì "Unica igiene del mondo") dove l'eroismo, il coraggio, la forza prevalgono. I lancieri in carica, raffigurati come una sequenza filmata, occupano il centro della scena, trasmettono la sensazione di una forza inarrestabile che travolge il nemico, inserito in basso a sinistra. Le lance sono delle vere e proprie linee di forza che guidano l'occhio dell'osservatore in una direzione di lettura insolita: di solito si va da sinistra verso destra, in questo caso accade il contrario e questo trasmette la sensazione di una forza dirompente ed inarrestabile che rompe gli schemi consueti, come del resto il fatto che la cavalleria prevalga contro un nemico con armi da fuoco. Il cavallo venne utilizzato da Boccioni in diverse occasioni, tanto per fare un esempio basti pensare al dipinto "La città che sale" dove alcuni cavalli imbizzarriti rappresentano una forza inarrestabile e incontenibili paragonata alla nuova città che cresce e si sviluppa in modo inesorabile. Sullo sfondo l'artista, come in un collage, inserisce pagine tratte dai giornali con cronache dal fronte, per sottolineare con ulteriore forza la gesta eroiche dei lancieri e il clima generale del dipinto. Inutile dire che tale visione eroica della guerra venne smentita dai fatti, ed anche la passione dell'artista per i cavalli gli sarà fatale visto che morì nel 1916 nei pressi di Verona proprio a causa di una caduta da cavallo.




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Boccioni nel 1910 aderisce ufficialmente al Futurismo e legge pubblicamente il Manifesto dei pittori futuristi a Torino redatto nello stesso anno. Accanto alla redazione teorica, di cui l’artista è uno dei principali esponenti, vi è una produzione pittorica futurista. Boccioni prima d’incontrare Marinetti, è un artista figurativo ma incomincia a concepire la realtà in maniera differente. Strumenti moderni nati in quell’epoca come la fotografia, erano oramai in grado di riprodurre in maniera mimetica la realtà. Boccioni si rende conto che si deve compiere un passo in avanti. Quello che sceglie di fare è rappresentare la realtà nelle sue sfaccettature, non quella che si presenta all’evidenza ma nei suoi meccanismi più intimi.

Solo i futuristi furono in grado di cogliere appieno le istanze di modernità insite non solo nella nuova sfida del volo, ma, genericamente, della scienza in senso lato. Infatti, quando, all’inizio degli anni Dieci, Marinetti “lanciava” i suoi primi proclami teorici e programmatici, i manifesti futuristi, le manifestazioni della fase pionieristica dell’aviazione erano già divenute popolari anche in Italia, richiamando sui prati di periferia delle principali città,  migliaia di curiosi che con il naso all’insù ammiravano quelle prime, incerte, evoluzioni di apparecchi realizzati in legno di balsa, cartone e pelle. Infatti, dopo i voli dimostrativi di Delagrange, nel 1908, erano sorti un po’ dappertutto vari “concorsi” aerei, ovvero raduni con dimostrazioni ed evoluzioni definite “acrobatiche”: a Brescia nel 1909, a Milano, Verona, Firenze e Palermo nel 1910, a Torino nel 1911, solo per citarne alcuni. Così quei primi, traballanti, aeroplani ben presto soppiantarono anni e anni di tradizioni aerostatiche, e in un attimo i grandi e policromi palloni alla “Montgolfier” furono spediti in cantina. Tuttavia il Futurismo forse non era completamente pronto in questo slancio verso il cielo e verso il futuro, nel senso che in un primo momento tutto questo fervore aviatorio filtrò nel Futurismo quasi esclusivamente nell’ambito letterario, rimanendone invece la pittura pressoché indenne da ogni influenza, forse perché troppo impegnata, all’epoca, nella definizione di uno stile “proprio”. Il Futurismo, infatti, nel suo bruciare tappe e tempi, spesso lanciava troppo avanti il sasso delle sue provocazioni, o delle sue invenzioni.
Tra queste, appunto, la pittura futurista che fu annunciata ben prima che uno stile futurista vero e proprio fosse stato delineato sulla tela. E, di fatto, la prima stagione futurista, che va dal 1909 al 1915, da un punto di vista pittorico fu essenzialmente Boccioni-centrica, nel senso che la prorompente personalità di Umberto Boccioni ne condizionò pesantemente uno sviluppo più polifonico.


Boccioni nel 1910 aderisce ufficialmente al Futurismo e legge pubblicamente il Manifesto dei pittori futuristi a Torino redatto nello stesso anno. Accanto alla redazione teorica, di cui l’artista è uno dei principali esponenti, vi è una produzione pittorica futurista. Boccioni prima d’incontrare Marinetti, è un artista figurativo ma incomincia a concepire la realtà in maniera differente. Strumenti moderni nati in quell’epoca come la fotografia, erano oramai in grado di riprodurre in maniera mimetica la realtà. Boccioni si rende conto che si deve compiere un passo in avanti. Quello che sceglie di fare è rappresentare la realtà nelle sue sfaccettature, non quella che si presenta all’evidenza ma nei suoi meccanismi più intimi.
L'aeropittura è una declinazione pittorica del futurismo che si afferma negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Come espressione del mito della macchina e della modernità caratteristico del movimento marinettiano, l'aeropittura manifesta l'entusiasmo per il volo, il dinamismo e la velocità dell'aeroplano.
Quanto al mito della Velocità, l’iconografia prodotta dai pittori futuristi della prima generazione fu sostanzialmente “terrena”, greve, ben radicata al suolo. I soggetti favoriti erano infatti di volta in volta la velocità di un treno, di un tram, di un’automobile, di una bicicletta, o persino di un cavallo, soggetto ben poco futuribile. Insomma, a dispetto del loro ruolo di innovatori ed iconoclasti essi erano ancora legati al vecchio secolo, all’Ottocento, cioè al secolo della “velocità terrestre” (treno e vapore ed automobile), mentre, invece, il Novecento sarà appunto il secolo dell’aria e dello spazio: dall’aeroplano al viaggio sulla Luna.

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CARLO DALMAZZO CARRA'
1881 - 1966

Pittore italiano, critico d’arte, scrittore, noto come uno dei firmatari del Manifesto Futurista, sperimentatore di diverse tendenze artistiche, dal Realismo al Divisionismo, dalla Metafisica, al “realismo mitico” degli anni Venti e Trenta, nasce a Quargnento, in provincia di Alessandria, l’11 febbraio 1881. Nel 1910 Carlo Carrà firma il Manifesto dei Pittori Futuristi di Marinetti, insieme a Umberto Boccioni e Russolo. All’appello rispondono Balla e Severini: da qui nasce il futurismo italiano che esprime l’amore per la velocità, la tecnologia e la violenza. Mentre matura in lui la crisi del futurismo, l’artista entra in un periodo di riflessione e di studio dei classici come Giotto e Paolo Uccello, realizzando nello stesso tempo i suoi primi quadri metafisici. Chiamato alle armi, Carrà viene ricoverato nell’ospedale militare di Ferrara dove incontra i pittori metafisici Savinio, Govoni, De Pisis e De Chirico con il quale inizia una lunga corrispondenza, dando vita con loro alla “Scuola” della pittura metafisica. Nel 1921, “L’Ambrosiano”, l’importante quotidiano milanese, gli affida l’incarico di critico d’arte, una posizione influente che Carrà manterrà per diciassette anni. Nello stesso anno inizia la terza stagione della ricerca artistica, di Carlo Carrà, il cosiddetto “realismo lirico”, considerata dai contemporanei la stagione della maturità artistica del pittore, “dopo gli errori di gioventù del futurismo e della metafisica”. È il periodo naturalista di Carlo Carrà: i paesaggi diventano il suo soggetto prediletto da ritrarre e, dal 1921 al 1925, dipinge marine in Liguria, laghi e campagne in Lombardia, poi nel 1926 in Versilia, rimane folgorato dai paesaggi luminosi e solitari, le spiagge deserte, i monti sul mare della Toscana ed i capanni abbandonati. Forte dei Marmi, dove giunge nel 1926, diventa la sua seconda patria, vi abita a lungo, ritraendo una Versilia che non esiste più. Nel 1933 Carrà sottoscrive il Manifesto della pittura murale di Sironi e nel 1941, in riconoscimento della sua arte, viene nominato professore di pittura all’Accademia di Brera. Nel 1962, quattro anni prima della sua morte, al Palazzo Reale di Milano viene allestita una mostra antologica della sua opera. In seguito ad una malattia fulminante, Carrà muore il 13 aprile del 1966.
(In basso: Il Cavaliere Rosso, 1913)




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AROLDO BONZAGNI
1887 - 1918

Nacque a Cento dove poteva vedere gli affreschi giovanili del Guercino, nel 1906, aiutato da una borsa di studio offertagli dal Comune, si trasferì a Milano. Nello stesso anno s'iscrisse all'Accademia di Brera, dove ebbe come compagni, tra gli altri, A. Funi, M. Ramperti, A. Carpi, C. Carrà. In questo primo periodo milanese, oltre che dedicarsi con particolare felicità espressiva - come si ha testimonianza dagli amici - al disegno e alla caricatura, già coltivati fin dalla prima giovinezza, eseguì dipinti che, a giudicare dalle poche opere di cui si ha conoscenza, risentivano soprattutto dei modi del Tallone, come, per esempio, il Ritratto della madre, l'Autoritratto giovanile e il Ritratto della sorella. impostati con solidità plastica, con un netto rifiuto delle dissociazioni cromatiche dei divisionisti. Ai divisionisti, tuttavia, e in particolare al Previati, Bonzagni rivolse la sua attenzione, come implicitamente prova la stretta amicizia con Boccioni, allora legatissimo a quelle esperienze.; Non convinto dalla tecnica divisionista, si sarebbe rifiutato di continuare a far parte del movimento futurista, al quale pure aveva dapprima dato la sua adesione. Di fatto Bonzagni fu spinto a sottoscrivere il primo documento dall'amicizia con Boccioni, Carrà, Sant'Elia, Marinetti e Russolo e dalla concordanza nella polemica antipassatista, ma non condivise le scelte espressive dei compagni, dai quali si allontanò poi sempre di più, a mano a mano che, grazie soprattutto a Boccioni, il futurismo elaborava un suo autonomo linguaggio. Dei futuristi, inoltre, il Bonzagni non condivise mai l'entusiasmo per la macchina e per il dinamismo industriale, attento com'era piuttosto ad una tematica strettamente legata alle matrici veriste, che sono alla base di quasi tutte le sue opere, fino alle più tarde.
(In basso: Mondanità, 1910)




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ROMOLO ROMANI
1884 - 1916

Nato a Milano, ma vissuto per lunghi periodi a Brescia. Romani fu tra i firmatari nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi e nella sua seppur breve carriera (morì di malattia nel 1916) incrociò, in un percorso assolutamente non lineare, la cultura simbolista mitteleuropea e il divisionismo di Previati, superandoli fino ad arrivare ai confini dell’astratto e della figurazione simbolica in netto anticipo rispetto ai suoi tempi. Amico fraterno di Umberto Boccioni, tra i giovani artisti che nei primi del Novecento si potevano incontrare a Milano, Romani era il più impegnato a seguire una linea di sondaggio del paranormale e del subcosciente, nel tentativo di riportare in superficie le emozioni e gli stati d’animo attraverso un complesso sistema di trascrizione d’ordine psicografico, occultistico, metaforico. La sua vicenda artistica e umana – segnata per altro dalla malattia mentale, che dal 1910 lo avrebbe isolato in ricorrenti e progressivi vuoti di coscienza – fu improntata da una visione critica dell’uomo e da una propensione a colpire il grottesco del mondo borghese analoghe a quelle che di lì a breve avrebbero animato Marinetti e i Futuristi, il Dada e, più in generale, tutte le avanguardie del primo Novecento.
(In basso: Immagine, 1908-1910)




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LUIGI RUSSOLO
1885 - 1947

Luigi Russolo nasce a Portogruaro nel 1885. Trasferitosi con la famiglia a Milano nel 1901, decide di dedicarsi alla pittura. Nel 1909 espone una serie di incisioni alla galleria Famiglia Artistica di Milano, dove conosce Carlo Carrà e Umberto Boccioni, la cui opera, assieme a quella di Previati, influisce particolarmente sul suo periodo divisionista. L’anno successivo, dopo l’incontro con Marinetti, Russolo firma sia il Manifesto dei pittori futuristi che il Manifesto tecnico della pittura futurista, partecipando in seguito alle mostre e alle serate futuriste. I suoi dipinti, nonostante l’influenza del Cubismo, si rifanno principalmente agli esempi del fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia e alle cronofotografie di Etienne-Jules Marey. Nel 1913, pubblica il manifesto L’arte dei rumori che, trasformato poi in libro, teorizza l’inclusione dei rumori accidentali nella composizione musicale. A partire dallo stesso anno Russolo comincia a dirigere i suoi primi concerti futuristi utilizzando gli “intonarumori”, strumenti che producono rumori, inventati dall’artista assieme a Ugo Piatti. Il pubblico reagisce con entusiasmo, ma anche con aperta ostilità. Inizia a collaborare con la rivista “Lacerba”, sulla quale nel 1914 pubblica uno scritto che propone una nuova forma di notazione musicale. Allo scoppio della Grande guerra si arruola volontario e, seriamente ferito nel 1917, trascorre diciotto mesi in vari ospedali. Nel 1921 tiene tre concerti futuristi a Parigi, apprezzati da Igor Stravinsky, Sergei Diaghilev, Ravel e Mondrian, il quale dedica un lungo articolo agli “intonarumori” nella rivista “De Stijl”. Nel corso degli anni ’20 brevetta una serie di strumenti denominati “rumorarmoni”, “archetto enarmonico”, “piano enarmonico” e partecipa ai cortometraggi futuristi (ora persi), per i quali compone anche la musica. Nel 1929 tiene il suo ultimo concerto all’inaugurazione di una mostra futurista alla Galerie 23 di Parigi. Dopo un periodo trascorso in Spagna, occupandosi di filosofia occulta, nel 1933 Russolo torna in Italia dove, all’inizio degli anni ’40, ricomincia a dipingere in uno stile figurativo, da lui definito “classico-moderno”.
(In basso: Solidità della Nebbia, 1912)




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GINO SEVERINI
1883 - 1966

Gino Severini nasce a Cortona. Giunge a Roma nel 1899, dove frequenta i corsi serali d’arte a Villa Medici. Un incontro con Balla e Boccioni avvenuto nel 1901, si rivela decisivo per la sua attività artistica. Balla introduce Severini e Boccioni alla tecnica del colore divisionista dei neoimpressionisti. Severini si trasferisce a Parigi nel 1906. Qui studia gli impressionisti, i dipinti di Seurats e incontra Signac. Oltre a Modigliani, Picasso, Braque e Gris, fa la conoscenza di molti poeti e pensatori famosi dell’epoca. Severini viene invitato da Martinetti e Boccioni ad aderire al movimento dei futuristi. L’artista firma il “Manifesto della pittura futurista” l’11 febbraio 1910, diventando così co-fondatore di questa corrente. Tuttavia, contrariamente ai suoi colleghi artisti, Severini non si interessa molto alla dinamica delle macchine, ma rappresenta soprattutto le figure umane in movimento. I suoi primi dipinti, che ritraggono scene di cabaret e figure di ballerine, risalgono a questo periodo. Severini applica i principi creativi futuristi con immagini sfaccettate ed effetti simultanei in lavori come “La ballerina blu” (1912). Nel 1912 partecipa alle mostre dei Futuristi a Parigi, Londra e Berlino e stabilisce dei contatti fra l’Italia e la Francia. Dal 1915 le opere di Severini sono orientate al cubismo sintetico. Da questo momento l’artista rivolge la sua attenzione sempre più all’armonia delle forme geometriche, forse con l’aiuto del Goldener Schnitt. Le nature morte con strumenti musicali e le scene che ritraggono figure della Commedia dell’Arte sono i soggetti preferiti dall’artista. Dal 1924 fino al 1935 gli vengono commissionate numerose pitture murali e mosaici. L’artista conduce una vita movimentata fra Roma e Parigi. Pubblica scritti teorici e libri sull’arte e nel 1950 riceve il Gran Premio della Biennale di Venezia. La concezione divisionista del colore, adottata da Balla, insieme ad una rappresentazione cubo-futurista della forma, sono elementi tipici di tutte le opere di Gino Severini. Inoltre, l’artista si concentra sulla rappresentazione della luce, del movimento e di eventi verificatisi in momenti diversi, ma legati dal ricordo.
(In basso: Simultaneità di gruppi centrifughi e centripedi. Donna alla finestra, 1914)




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