Il 17 dicembre del 1903 l’aereo dei fratelli Wright si leva in volo in America; a Kitty Hawk si compie il primo volo a motore con una persona a bordo. Alcuni anni dopo, il più giovane dei fratelli, Wilbur, da Le Mans, entusiasma la Francia con le sue prove. Il 15 agosto 1908 scrive a Orville: «i giornali e gli aviatori francesi sono quasi impazziti per l’eccitazione» e il 25 agosto in un’altra lettera racconta: «L’eccitazione suscitata dai brevi voli che ho fatto supera quasi ogni immaginazione. I francesi sono impazziti. Invece di dubitare se noi possiamo fare qualcosa sono pronti a credere che noi possiamo fare qualsiasi cosa».
Wilbur sa bene che non è così e continua dichiarando al fratello un certo imbarazzo perché, dice, lui ha bisogno di compiere esercitazioni aeree e non di esibirsi e desidera continuare le prove in piena concentrazione. La riuscita è naturalmente legata ad assidui studi, ricerche, conoscenze acquisite, faticosa organizzazione, esperimenti, incidenti e rischi.

A sostenere laboriosità ed intraprendenza, disponibilità di energie mentali e fisiche è la passione, ad essa si sono abbandonati i pionieri del volo dalle primissime prove a oggi. ‘Passione’ è una parola in cui sta scritta la storia di tanti, tra cui molti poeti, pittori, musicisti, architetti e scultori che ne colgono il senso profondo di ebbrezza e follia. Studiosi, tecnici, ideatori e artisti del volo si riconoscono nel furore della creazione. In loro è possibile rintracciare un comune denominatore che si esprime nella concretezza dell’azione per gli uni, nella narrazione allegorica per gli altri: è la noncuranza della morte in determinate situazioni che esprimano un anelito di vita superiore, un’allucinazione d’immortalità:

Icaro, Icaro, anch’io nel profondo
Mare precipiti, anch’io v’inabissi
la mia virtù, ma in eterno
in eterno il nome mio resti al Mare profondo!

Nei seicentocinquanta versi del Ditirambo IV dell'Alcyone, Gabriele d’Annunzio canta l’impeto eroico che anela ad esplorare l’ignoto superando ogni limite, anche a prezzo della vita ed inserisce la propria celebrazione del mito classico entro la personale rielaborazione, che egli compie in questi anni, della filosofia nietzchiana.

PAGINA 8

Piacenza,
1-2 aprile 1911

Tullio Crali, Le Freccie Tricolori, 1987

Orville Á Wilbur Wright

Gabriele D'Annunzio

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Testo di: Anna Bellio, Voli di Sogno nella letteratura italiana del novecento, I.S.U. Università Cattolica, 2007

PIACENZA GIORNATE DI AVIAZIONE 1911

Nel 1911 per le solenni celebrazioni del cinquantenario dell'Unità d'Italia anche Piacenza, “la Primogenita” non vuole rimanere indietro ed un apposito comitato presieduto dall'ing. Bassi, organizza, con il patrocinio della Camera di commercio, una grande manifestazione con tre «giornate d'aviazione» da tenersi nei giorni 25-26-27 marzo. Dietro l'insistente invito del nostro Giuseppe Rossi, diede la sua adesione, in via del tutto eccezionale, anche Umberto Cagno, maestro del Rossi. Per la manifestazione il comitato stesso si era impegnato a versare ai due piloti partecipanti un compenso di quattromila lire, comprese tutte le spese di viaggio e permanenza, oltre alle indennità di trasporto e custodia degli aeroplani stessi. In un clima di grande attesa finalmente 25 marzo, sabato, data della prima giornata aviatoria, di cui furono stampate anche apposite cartoline, piazza Castello raccolse ben presto una grande folla composta da una moltitudine di persone affluite dalla provincia usufruendo di tariffe speciali sulle corse tranviarie supplementari appositamente istituite. verso le ore 18, approfittando di una schiarita Cagno si alza in volo per un breve tratto ed atterra fuori dalle mura. Il giorno seguente Cagno si alza in volo e compie un rapido volteggio sul campo nel ventoso pomeriggio domenicale. Rossi monta sul suo Farman e dopo aver percorso traballando piazza Castello con il motore spinto al massimo dei giri, si solleva lentamente nonostante l'accanirsi del maltempo dispettoso. L'apparecchio avversato dal ventaccio si alza di una cinquantina di metri, ma una più forte raffica di vento lo fa oscillare paurosamente e nonostante gli sforzi del pilota devia e sfiora un edificio poi urta con l'estremità di un 'ala il tetto della Direzione d' Artiglieria, precipitando al suolo con rumore. Lo sfortunato pilota è estratto dai rottami con una ferita al piede destro che lo costringerà ad alcuni giorni d'inattività.

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ORVILLE & WILBUR WRIGHT

Faceva freddo quella mattina del 17 dicembre 1903. Faceva freddo e soffiava un forte vento con raffiche di quasi 40 chilometri all'ora sulla spiaggia di Kitty Hawk, presso Kill Devil Sand Hill, nella Carolina del nord. La sera prima aveva piovuto, e alcune pozzanghere erano ghiacciate. Il clima era tutt'altro che ideale per far alzare in volo il «Flyer», infatti i fratelli Wilbur e Orville Wright, due dei cinque figli di un vescovo protestante, prevedevano un altro, ennesimo insuccesso. C'erano solo cinque persone a osservare i loro maneggi con quello strano aliante con un motore che loro stessi avevano costruito: John Daniels (a cui si devono le uniche foto esistenti) e Johnny Moore, i due guardiani della stazione di salvataggio marittimo di Kill Devil Sand Hill, e tre occasionali visitatori (A. D. Etheridge, William C. Brinkley e il quindicenne Johnny Moore) i quali, non sapendo come passare la mattinata, erano andati a fare un giro in spiaggia. Nonostante il vento, i Wright alle 10,35 decisero di tentare ugualmente. Ai comandi dell’aereo in legno con ali in tela si mise Orville, sdraiato a pancia in giù. Il Flyer venne posto su una sorta di slitta (non erano state previste le ruote) e trattenuto da un cavo. Poi venne azionato il motore, portato su di giri e, raggiunto un certo livello, rilasciato il cavo che catapultò il velivolo in avanti e, miracolo, invece di cadere di punta si alzò in volo. Orville volò controvento per poco più di 12 secondi alla velocità relativa di 48,5 kmh (effettiva di 12 kmh perché in quel momento il vento contrario era di oltre 36 chilometri all'ora) percorrendo circa 36 metri a un'altezza media di tre metri dal suolo. Il «Flyer», così era stato battezzato dai fratelli Wright, pesava a vuoto 274 kg che salivano a 342 a pieno carico, l'apertura alare era di 12,28 m, la superficie alare di 47,38 mq, era alto 2,8 metri, il motore aveva una potenza di 12 cavalli a 1.020 giri al minuto e due eliche di legno. L’aereo aveva struttura denominata «canard», ossia con gli impennaggi orizzontali di coda davanti alle ali. Quello stesso giorno i fratelli Wright si alzarono in volo altre tre volte: 12 secondi con ai comandi Wilbur, 15" con Orville e infine a mezzogiorno 59" con Wilbur che volò per quasi due chilometri. Riportato indietro per l'ultima volta, l'aereo venne sollevato da una raffica di vento, si capovolse e rimase danneggiato, Daniels restò ferito. Il Flyer non volò mai più. Il primo giornale a dare notizia del successo dei fratelli Wright fu lo sconosciuto quotidiano locale «Virginian Pilot».
Nei due anni successivi i Wright migliorano il loro aereo (sempre denomiato Flyer) compiendo le prime virate e i primi voli in circuito. Ma già il 4 ottobre 1904 Orville superò per la prima volta la mezz’ora di volo percorrendo 33,346 km. L’aereo interessò subito lo stato maggiore militare Usa più che l’industria, ma i contatti furono difficili. Il 23 dicembre 1907 il Signal Corps (l'equivalente Usa del Genio militare), responsabile degli sviluppi militari della neonata disciplina aerea (aerostati, mongolfiere, dirigibili, e via dicendo) codificò la prima specifica per un velivolo: la n. 486. Per essere accettato dal Signal Corps un aereo doveva volare a una velocità di 40 miglia orarie (circa 65 kmh), avere un’autonomia di 2 ore, portare due persone a bordo e carburante per 125 miglia (200 km). Inoltre l’aereo doveva essere smontato, trasportato su carri trainati da cavalli e rimontato entro un’ora. Erano previste forti penalità se la macchina non avesse rispettato questi requisiti. Le prove per il Signal Corps iniziarono il 3 settembre 1908 a Fort Myer, Virginia. Sei giorni dopo il Flyer aveva già superato le specifiche richieste restando in aria per più di un’ora. Ma il 17 settembre avvenne il primo incidente: Orville è seriamente ferito e il tenente Thomas E. Selfridge muore divenendo la prima vittima della storia dell’aviazione. Il 31 dicembre 1908 Wilbur batte in Francia ogni record: resta in aria per 2h18’ coprendo una distanza di 123 km. Wilbur Wright scomparve nel 1912 a causa di un'epidemia di tifo. Orville morì nel 1948.
(Da:http://www.corriere.it, di Paolo Virtuani)

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GABRIELE D'ANNUNZIO 1863 - 1938

Gabriele D’Annunzio nasce nel 1863 a Pescara in una famiglia borghese e agiata, che lo ricoprì di attenzioni, anche per la sua precocità intellettuale. Compie ottimi studi liceali e ancora collegiale, pubblica la prima raccoltine poetica , Primo vere, che suscita grande interesse. Dal 1881 si trasferisce a Roma, iscrivendosi alla facoltà di lettere. Ma la vita brillante della capitale distoglie l’ambizioso provinciale dagli studi regolari: fecondo poeta e prosatore, frequentatore dell’alta società, D’Annunzio non prenderà mai la laurea. Nel 1883 sposa la principessa Maria Hardouin di Gallese, da cui avrà tre figli. Tra il 1884 e il 1888 è cronista mondano: ciò costituisce per lui un utile esercizio stilistico su situazioni eleganti e frivole, poi sviluppate nel primo e fortunato romanzo, Il piacere. E’ ormai affermatissimo come scrittore. Un nuovo legame con la contessa Maria Gravina, gli dà altri due figli, tra cui la prediletta Renata , che D’Annunzio soprannomina gentilmente “la Sirenetta”. Nasce l’amore intenso e tumultuoso con la grande attrice teatrale Eleonora Duse. Nel 1897 è eletto deputato per l’estrema destra, ma nel marzo 1900, dopo la repressione del governo Pelloux seguita ai tumulti popolari milanesi, passa clamorosamente a sinistra. Dal 1898 si stabilisce con la Duse in Toscana. In questo periodo nascono alcune tra le sue opere maggiori, in prosa (il romanzo Il fuoco) e in poesia (il ciclo delle Laudi). Chiuso l’amore con la Duse, altre burrascose relazioni si susseguono e si intrecciano senza intervallo. Soverchiato dai debiti e assediato dai creditori, nel 1910 ripara in Francia. Nel 1915 rientra in Italia ed è tra i più fervidi interventisti. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nonostante sia più che cinquantenne, prende servizio al fronte, mosso dall’ambizione di svolgere in ogni circostanza il ruolo del superuomo. S’impegna poi in molte azioni di guerra rischiose: l’incursione aerea su Pola, il volo su Vienna, ma soprattutto, occupa Fiume. Conclusa l’avventura di Fiume si sposta in una villa di Gardone Riviera. Qui resta sino alla morte, nominato nel 1924 dal re, su proposta di Mussolini, principe di Montenevoso. La villa viene ingrandita e via via trasformata in una casa-museo. E’ il fastoso “Vittoriale degli Italiani”, che D’Annunzio donerà allo Stato. Muore il 1° marzo 1938, stroncato da un’emorragia cerebrale. (da: http://www.parafrasando.it/BIOGRAFIE/D_Annunzio_Gabriele.html)

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DITIRAMBO IV
di Gabriele D'Annunzio. Da Alcyone

Icaro disse: «La figlia del Sole a me poggiata come ad un virgulto sul limite dei paschi guatava il candido armento dei buoi pascere lungo il Cèrato rupestro. Mi si piegava il destro òmero sotto la mano regale umida di sudor gelido; e, dentro me, tremavano tutte le midolle, negli orecchi fragore sonavami sì forte ch'io temeva udir dal sacro Dicte i Coribanti atroci e il rombo del bronzo percosso. E la città di Cnosso splendea di mura còttili e di blocchi oltre l'irto canneto atto a far dardi. "O Pasife, che guardi?" chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava nella sua barba violetta come l'uva cidònia; ché membruto egli era e gravato di giallo adipe il fianco. "Io guardo il toro bianco, quello che tu non désti a Posidone" la figlia di Perseide rispose. E le vette nevose dell'Ida biancheggiavan men del toro niveo diniegato al dio profondo. "Perché sì tremebondo sei tu, figlio di Dedalo?" il Re chiese. E allor Pasife: "Questo ateniese giovinetto somiglia ad Androgèo che non torna d'Atene; e per ciò mi sostiene, il cor triste mi folce; per ciò tanto m'è dolce le dita porre nel suo crin prolisso". Io rividi l'Ilisso, i platani gli allori gli oleandri che l'adombrano, e il bosco degli ulivi presso Colono caro all'usignuolo. Rividi il patrio suolo entro l'anima mia subitamente, come colui ch'è presso alla sua fine; perocché nel mio crine ponea le dita la donna solare, e l'ossa mie flagrare parean nel suo sorriso accosto accosto siccome rami cui fiamma s'appicchi quando i legni sien ricchi d'aroma e inariditi dall'Estate. E le navi lunate coi rematori seduti agli scalmi in fila a battere il flutto diviso, e l'Eracleo, l'Amniso, i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti e tutta quanta l'isola selvosa con le vigne col dìttamo e col miele ardere in quel sorriso vidi per mezzo ai cigli miei morenti. E il sire degli armenti udii mugghiare in quel foco sonoro, mugghiare il bianco toro diniegato al gran Padre enosigèo». Icaro disse: «Poi che l'ombra cadde (il vertice dell'Ida solitario nell'etra rosseggiava come il fiore del dìttamo crinito) nascostamente ritornai su' paschi, gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliai contra il toro le selci acuminate dell'àlveo del Cèrato divulse e imposte alla mia frombola cretese. Il boaro m'intese e mi rincorse ratto su per l'erbe con la verga di còrilo a minaccia. Ma perse la mia traccia nell'ombra che cadea; né mi conobbe, né l'erbe verdi tenner le vestigia. L'infanda cupidigia per ovunque era sparsa! Palpitare parea pur anco nelle stelle vaghe! Il vento perea piaghe sùbite aprire nel mio corpo nudo acerbe sì che non sarìami valso a medicarle il dìttamo dell'Ida. E piena era di grida compresse la mia gola nell'arsura, quando giunsi alle mura del Labirinto ove il mio padre aveva ambage innumerevole di vie riempiuta d'error laborioso. Quivi ristetti ascoso perocché vidi il duro fabro alzato su la soglia difficile in silenzio e la figlia del Sole in gran segreto favellare con lui senza sorriso, marmorea nel viso, come chi chieda all'arte del mortale una cosa tremenda e non ne tremi». Icaro disse: «L'officina arcana era in un orto a vista del recurvo porto Eracleo frequente di ben costrutte navi dalla prora dipinta; e gli utensìli erano acuti, e la fronte del fabbro era contratta. Sorgea la forma esatta della falsa giovenca nella luce del dì, quasi che sazia di pastura spirasse dalle froge il fiato olente di cìtiso, tranquilla su' piè fessi. Con tale arte commessi eran gli sculti legni e ricoperti di fresca pelle, che parean felici d'ubertà non fallibile i bei fianchi e le mamme in sul punto di gonfiarsi all'affluir d'un latte repentino. Furtiva nel giardino venìa Pasife senza le sue donne a rimirar l'opera fabrile ch'ella infiammava della sua lussuria impaziente; e seco avea l'irsuto boaro come giudice perfetto. Costui rise: il difetto scorse nella giogaia. Il grande artiere fu docile al consiglio dell'uom rude. Pasife con le nude braccia premette gli òmeri miei nudi, s'abbandonò su me come su fulcro insensibile, assorta nel suo sogno inumano, perduta nel portento. Saliva un violento foco dal suolo ov'eran le radici della mia forza, e tutto m'avvolgea, e tutto come arbusto resinoso parea vi crepitassi e vi splendessi. Oh giardino di spessi aromi, carco di cera e di miele, carco di gomma e d'ambra, ove s'udìa scoppiar la melagrana come un riso che scrosci e quasi mosto si liquefaccia in una bocca d'oro! Recava l'Austro il coro delle femmine ancelle dal palagio remoto, che sedevano ai telai o tingevan di porpora le lane o i semplici isceglieano al beveraggio o di carni ammannivan la vivanda per la figlia del Sole, ignare ch'ella fosse innanzi al Sole preda schiumosa d'Afrodite infanda». Icaro disse: «La figlia del Sole amai, che per libidine soggiacque alla bestia di nerbo più potente. Splendea divinamente la sua carne quand'ella penetrava nel simulacro per imbestiarsi. Io chiuso in me riarsi. Io, quando vidi il callido boaro la prima volta addurre alla falsa giovenca il toro bianco che si batteva il fianco sonoro con la fersa della coda adorno i corni brevi d'una lista di porpora, balzai gridando: «O Sole, a te consacrerò, sopra la rupe inconcussa, oggi un'aquila sublime!» E andai verso le cime con la bipenne l'arco e le saette, ben coturnato, a far le mie vendette». Disse: «Da prima vidi l'ombra vasta palpitar su la torrida petraia. Fulvo il macigno, cerula era l'ombra. E dopo udii la romba delle penne per l'aer verberato. Gridò verso il suo fato ella repente, ferma su le penne; la corda mia nel tendersi stridette; il grido parve lacerare il cielo e lo stridor fu lieve qual garrito di rondine ma il tèlo che si partì fu forte e fu cruento. Sentii sul viso il vento del volo che fece impeto a salire, poi si fiaccò, girò come in un turbo, piombò verso lo scrìmolo del monte. Mi cadde su la fronte una goccia di sangue larga e calda come goccia di nuvolo d'agosto quando lampeggia e tuona. L'aquila s'abbattè sul sasso prona il petto, aperta l'ali crude che strepitarono sul sasso, erta sùbito il rostro alla difesa. La roccia discoscesa ardeva nel meriggio come il ferro nella fucina, sotto i miei coturni. La fronda dei viburni era come la scoria dei metalli liquefatti, e la fronda degli avorni. S'udìano i capricorni belare in mezzo al dìttamo crinito, e l'odore dell'erba vulneraria mescevasi nell'aria tremula con l'odor dell'aquilino sangue che d'ogni sangue è più vermiglio. Col rostro e con l'artiglio fu pronta la satellite di Giove a combattere contra il feditore su la rupe inconcussa. Allora io dissi: "Augusta, se tu sei senza volo, io sia senz'armi". E disdegnai ritrarmi qual uomo a saettarla di lontano. Ma gittai l'arco; e mi fasciai la mano con il corame della mia faretra, mi fascia la man destra a difesa degli occhi minacciati dal becco adunco. Feci impeto, entrai in un selvaggio fremito di penne; in un orrendo strepito di penne come in un nembo fulvo preso fui dalla possa grifagna; sentii fuggirmi sotto le calcagna la rupe e gridai forte. Combattemmo nel rombo della morte. Io con la destra le afferrai la strozza robusta come tronco di serpente, e strinsi e strinsi; e con la manca trassi dalla ferita fresca il dardo primo, più volte e più nell'imo fegato lo confissi. Combattemmo sul ciglio degli abissi, in cospetto del Sole, a mezzo il giorno. Gloria d'Icaro! Intorno alla zuffa ogni bàttito di penne sprizzava mille stille di sangue come porpora in faville accesa ed isvolata via per festa. A gloria la mia testa pareva di faville incoronarsi. E le piume dei tarsi e del petto e del collo e delle ascelle isvolavan su l'Ostro. E un rivolo purpureo dal rostro colava sul mio braccio imporporato fino al cùbito. E làcera dai colpi delle rampe la destra coscia m'era sì che la messaggera Nike, se mai sostò sul solitario vertice andando verso Atene mia a recar le corone dell'oleastro, fece il paragone tra l'aquilino sangue e il sangue icario. Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole. Parvemi, quando apersi il pugno ostile e la nemica ricoprì la rupe alfine spenta, parvemi che tutta la sua virtute aligera mi fosse nelle braccia e negli òmeri trasfusa e m'agitasse i fragili precordii una immortale avidità di volo. L'alto vertice solo e l'esanime preda eran con meco, e il dio della lucifera quadriga. Pregai: "Divino auriga, questa vittima t'offro in olocausto perché tu mi sii fausto se dato mi sarà tentar le vie dove agiti le tue criniere bianche. Il torace le viscere le branche e il gran capo rostrato in un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardo e la canna del dardo. Concedi, o dio magnifico, se m'odi, concedimi che immuni dalla brace io dell'aquila serbi l'ali forti e con meco le porti perché le veda entrambe il padre mio Dedalo d'Eupalàmo ateniese, artefice sagace, perché due me ne foggi a simiglianza l'uomo di molti ingegni, ma più forti, ma con più grande numero di penne". E tolsi la bipenne che al cinto appesa avea dietro le reni: con ella diedi nelle congiunture, di muscoli e di tendini gagliarde così che resisteano al doppio taglio. "Ahi che l'incudine e il maglio e l'industria paterna non varranno a radicarmi la virtù dell'ala nella scapula somma" io mi pensai considerando, come il citarista inchino su le corde, la tenacia del nesso tendinoso che biancheggiava di color di perla nel cruore. E la mente ne fu trista. E trista fu la mozza ala, a vederla. E, nel fuoco di sterpi fumigando la residua carne offerta al Sole, io mi pensai: "Si duole il dio solingo sul suo carro ardente e non cura l'insolito libame. La figlia sua nel simulacro infame ei vide, onniveggente; e dell'arte di Dedalo si cruccia e mi scopre nel cor la piaga acerba, nel cor che non si lagna, cui dìttamo né stebe non mi vale". Mi gravai d'ambo l'ale congiunte con la stringa del mio cinto; e l'alta volontà fu la compagna della doglia fatale quando, scorto dal dio, di sangue tinto, scesi dal monte verso il Labirinto». Icaro disse: «L'officina arcana era in una caverna del dirupo, dietro il porto d'Amniso a levante di Cnosso, erma sul mare. S'udiva starnazzare e stridere d'uccelli senza tregua, pe' fóri dello scoglio ferrugigno. Il suolo di macigno consparso era d'antichi dolii rotti e di fimo biancastro. Rimbombavano al Giàpice salmastro le concave pareti come le curve targhe dei Cureti all'urto delle picche furibonde. Sotto, il fragor dell'onde avea lunga eco per ambagi ignote quando l'Apeliote enfiava i verdazzurri otri del sale. Quivi all'innaturale opera intento era il mio padre, quivi i congegni del volo oprava senza incude e senza maglio. Ben gli diedi travaglio e affanno, ché pareami troppo tarda la sua fatica per il mio desìo e sempre poche mi parean le penne adunate dinanzi a lui che oprava. Per lui la cera flava, stretta in pani, col pollice e col fiato ammollii; dispennai la copiosa cacciagione; sollecito le penne separai dalle piume. Il sangue onde imperlavasi l'acume d'ogni fusto divulso vertudioso parvemi; e mi piacque a stilla a stilla suggerlo, accosciato presso il fabro mirabile che oprava seduto su la pietra. Quante volte votai la mia faretra, infaticato sagittario errante per le rupi lontane! I falchi gli sparvieri e le poiane caddero, e gli avvoltoi calvi gravati di carni lugùbri, e gli astori co' resti dei colùbri, ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimonii gambuti dai lunghi ossi accòmodi al tibìcine, ogni specie pennipotente altivolante cadde per la forza degli archi miei cidonii e de' miei dardi gnossi. E mi tornava io carico di preda celeste alla caverna; e pur sempre pareva al mio desìo che fosse tarda l'opera paterna. Era quivi l'odore della cera e della ragia, ché l'operatore mescolava le lacrime del pino chiare al dono trattabile dell'ape, acciocché questo fosse più tegnente. Escluso avea dall'opera i metalli come gravi ch'ei sono, e l'armatura composto avea con le vergelle ferme del còrilo e pieghevoli, congiunte da bene intorto stame in ciechi nodi, e sópravi disteso avea l'omento, la grassa rete che le interiora degli animali include, ben dissecco. E sul congegno solido e leggero ei disponea per ordine le penne, dalla più breve alla più lunga elette acutamente, come nella fistola di Pan le avene dìspari digradano per la natura dei diversi numeri. E lino e cera usava a collegarle, cera immista di ragia, come dissi. E le sapeva inflettere con tanta arte, per imitar la curvatura della vita, che l'ala su la pietra inerte parea trepida e tepente e penetrata d'aere, ventosa come fosse per rompere dal nido o per posarsi dopo lungo volo». Icaro disse: «Non veduto, vidi. Misi gli occhi per entro ad un rosaio, ove all'alito mio silentemente si sfogliarono due tre rose passe. Parve che si sfogliasse con elle e si sfacesse il cuor mio caro. E senza fine amaro mi fu tutto che vidi non veduto, in quel giardino muto ove non più s'udìa la pingue gomma gemere né scoppiar pomo granato come riso puniceo che scrosci. Fracidi i frutti, flosci erano, grinzi come cuoi risecchi gli arbori, crudi stecchi; le cellette soavi, aride spugne, senza la melodìa laboriosa. Rotta al suolo, corrosa, informe fatta come vil carcame era la vacca infame offerta dalla frode al toro bianco perché l'inclito fianco alla figlia del Sole empiesse di semenza bestiale. E la donna regale, figlia del Sole e dell'Oceanina, Pasife di Perseide, il cui vólto m'era apparito come il penetrale della luce nel tempio dell'iddio splendido, la reina dell'isola che fu cuna al Cronìde ricca in dìttamo in uve in miele e in dardi, l'adultera dei pascoli era quivi sola col suo spavento. Bocca anelante, nari acri, occhio intento avea, pallido volto come l'erbe aride, consumato dai sudori e dalle schiume della sua lussuria. Discinta era, e l'incuria della sua chioma la facea selvaggia qual femmina del Tìaso tebano che defessa dall'orgia ansi in un botro del Citerone, esangue fra il tirso spoglio della fronda e l'otro voto del vino, al gelo antelucano. Sentiva nel suo ventre, abbrividendo, vivere il mostro orrendo, fremere il figlio suo bovino e umano». Icaro disse: «Era stellato il cielo, era pacato il mare, nella vigilia mia meravigliosa. La roggia stella ascosa nel mio cor vigile era la più grande. Le cose miserande eran lungi da me come da un dio beverato di nèttare novello. Parea dal corpo snello dileguarmisi il triste peso come dal cielo eòo si dileguava l'ombra, e nella carne sgombra un aereo sangue irradiarsi. Nel cielo eòo comparsi i pallidi crepuscoli, il messaggio della Titània fece su per l'acque un infinito tremito tremare. Subitamente il giubilo del mare si converse in desìo tumultuoso, irto le innumerevoli sue squamme. Allor tutte le fiamme del giorno dal mio cor parvero nate, per sempre tramontate dietro di me le stelle della notte, l'ali della mia sorte già nel periglio glorioso aperte. Ahi, su la pietra inerte si giacevan gli esànimi congegni, e le mie braccia umane erano spoglie della virtù pennata che la mia scure avea tronca sul monte in giorno di vittoria. E sùbito mi fu nella memoria la tenacia del nesso tendinoso che biancheggiava di color di perla nel cruore vermiglio. "Aquila vinta" dissi "Icaro, figlio di Dedalo d'Atene, ai tuoi mani consacra i ligamenti arteficiati e fragili dell'ali che sono opera d'uomo; perché, come ti vinse combattendo lungi e presso, così nel tuo dominio vincerti vuole d'impeto e d'ardire". E il mio padre destai dal sonno. Dissi: "Padre, è l'ora". Non altro dissi. Muto stetti mentr'ei m'accomodava l'ali agli òmeri, mentr'ei gli ammonimenti iterava con voce mal sicura. "Giova nel medio limite volare; ché, se tu voli basso, l'acqua aggreva le penne, se alto voli, te le incende il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo. Abbimi duce, séguita il mio solco. Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso. Io ti segno la via. Sii buon seguace". E le mani perite gli tremavano. Il mirabile artiere ebbi in dispregio silenziosamente. "Al primo volo io con te lotterò, per superarti. Fin dal battito primo, io sarò l'emulo tuo, la mia forza intenderò per vincerti. E la mia via sarà dovunque, ad imo, a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola, sarà dovunque e non nel medio limite, non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi" risposegli il mio cor silenzioso. E gli sovvenne della grande frode (difficile all'oblìo questo mio cuore sì che l'acqua del Lete non ci valse: furon pur tre le tazze tracannate) e del dolo fabrile gli sovvenne. Fra le mani perite che tremavano riveder seppe gli utensìli acuti intesi a compiacer la trista voglia. "Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo. Volerò senza foga, e tu mi segui". Ma con l'arte dell'aquila io spiccai dal limitar della caverna un volo sì veemente che diseparato fui sùbito. Gli stormi isbigottirono su per le rosse rupi, in fuga striduli temendo la rapina dileguarono. Oh libertà! Pel corpo nudo l'aere matutino sentii crosciarmi, gelido tutto rigarmi di chiarezza irrigua: non i torrenti ove uso fui detergere dopo le cacce la sanguigna polvere m'avean rigato di sì grande giòlito. Oh nel cor mio rapidità del palpito ond'era impulso il volo, in egual numero! Pareami già gli intaversati bàltei esser conversi in vincoli tendìnei, tutto l'azzurro entrar per gli spiracoli del mio pulmone, il firmamento splendere sul mio torace come sul terribile petto di Pan. Gridava "Icaro! Icaro!" il mio padre lontano. "Icaro! Icaro!" Nel vento e nella romba or sì or no mi giungeva il suo grido, or sì or no il mio nome nomato dal timore giungeva alla mia gioia impetuosa. "Icaro!" E fu più fievole il richiamo. "Icaro!" E fu l'estrema volta. Solo fui, solo e alato nell'immensità. Passai per entro al grembo d'una nuvola: un tepore un odore dolce e strano eravi, quasi l'alito di Nèfele madre d'Elle che diede nome al ponto. Il vento del remeggio i veli tenui sconvolse, un che di roseo svelò, un che di biondo. Odore dolce e strano m'illanguidiva, inumidiva l'ali. Il vol decadde. Vidi undici navi di prora azzurra fornite di tolda, che flagellavano il mar con la palma dei remi in lunga eguaglianza concordi, andando a impresa lontana. Sul ponte pelte lunate luceano e di bronzo clìpei tondi, aste lunghe. Mi giunse l'urlo dei nàuti. Veloce volai, oltre passai. Qual fu dunque la mente dei nàuti rudi mirando il prodigio? Come di me favellarono? Dissero forse: "In un campo di strage la màscula Nike, nell'ombra d'un cumulo grande dai carri estrutto riversi e dirotti, o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri, sul suol cruento cedette all'eroe che l'afferrò per la chioma; e fu pregna. E quei che rema lassù con tant'ala è certo il figlio di lei giovinetto". Di queste l'alto cor mio si compiacque imaginate parole, ché stirpe di Nike avrebbe ei voluto infierire. E vidi poi sotto fulgere in Paro iscalpellata il candor del Marpesso. E vidi poi dall'erratica Delo salir vapore di caste ecatombi. Poi non vidi altro più, se non il Sole. Poi non volli altro più, se non da presso mirarlo eretto sul suo carro ignìto, giugnerlo, farmi ardito di prendere pei freni il suo cavallo sinistro, Etonte dalle rosse nari. Il pètaso e i talari d'Erme Cillenio avea conquisi il mio sogno meridiano, il mio delirio. Congiunto era con Sirio altissimo nel medio orbe, nell'arce somma dei cieli Elio d'Eurifaessa. E l'altezza inaccessa e l'ardore terribile agognai ed offerirgli l'ali che sul monte crètico escluse avea dall'olocausto. Mi sembrava inesausto il valor mio ché l'animo agitava le morte penne, l'animo immortale e non il braccio breve. Ed ecco, vidi come un'ombra lieve sotto di me nella profonda luce ove non appariva segno alcuno del mare cieco e dell'opaca terra; ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra. E dissi: "Icaro, è l'ora". Ma il cor non mi mancò. Non misi grido verso il mio fato, come la devota alla saetta aquila moritura; né rimpiansi il paterno ammonimento. Guatai senza spavento in giuso; e l'ombre lievi eran le penne dell'ali, che cadeano tremolando dalla cera ammollita. Mi sollevai con impeto di vita verso il Titano: udii rombar le ruote del carro sul mio capo alzato; udii lo scàlpito quadruplice; il baleno scorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo dei cavalli. Piròe dalla criniera sublime, Etonte dalle rosse nari. E i cavalli solari annitrirono. Il ventre di Flegonte brillò come crisòlito; la bava d'Eòo fu come il velo d'Iri effuso. E vidi il pugno chiuso che teneva le rèdini, la fersa garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia. "O Titano!" E la faccia indicibile, sotto la gran chioma ambrosia, verso me si volse china; e i raggi le cingean mille corone. "Elio d'Iperione, t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offre quest'ali d'uomo ignote che seppero salire fino a Te!" Si disperse nel rombo delle ruote la mia voce che non chiedea mercè al dio ma lode eterna. E roteando per la luce eterna precipitai nel mio profondo Mare». Icaro, Icaro, anch'io nel profondo Mare precipitai, anch'io v'inabissi la mia virtù, ma in eterno in eterno il nome mio resti al Mare profondo!

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