È di Paolo Buzzi il dramma aereo in tre sintesi colorate La carlinga
dei senza naso; creato nel 1933 per il Teatro degli Indipendenti di
Anton Giulio Bragaglia, a Roma non fu mai rappresentato, né stampato.
Il testo teatrale continua l’esperienza del Teatro sintetico di Buzzi,
raccolta di diciotto sintesi scritte prima della guerra ed edite postume
nel 1988. L’opera è ambientata all’interno di un aereo, malconcio
tanto da essere definito dal pilota anziano, in apertura del dramma, una
carcassa. L’azione è ricca di sorprese e colpi di scena, violenta nel suo
svolgersi e nel suo chiudersi, giocata sul filo della follia che porta alla
mutilazione di tre uomini ai quali Ludda, l’unica donna e vera sola
protagonista, stacca il naso per buttarlo sul fondo della cabina,
impossessarsi così della virilità e affermare la propria femminilità offesa.
Si scopre che Ludda è stata abbandonata dal pilota per un’altra donna e
un compagno di viaggio la consola: «Su! Su! Bella mia! Queste lagrime,
per un uomo al volante, non valgono una goccia di benzina... Lascerà l’ALTRA, come ha lasciato te... Altro che i marinai! Avvoltoi senza
nido, questi avieri!».
La donna è l’unica che, nel corso delle tre sintesi, interpreta le
emozioni legate decisamente al volo: arde dal desiderio di volare, passa
dalla paura all’esaltazione, è pronta a ripartire per una nuova avventura
dopo l’atterraggio: «La gioia mi lubrifica i muscoli. Faccio parte
dell’elica. La mia furia è quella stessa del motore...».
Ciò che accomuna le diverse forme d’arte in questo loro processo di
rivitalizzazione sono le mutevoli prospettive aperte dal volo, prospettive
tanto diverse da quelle terrestri tradizionali. Esse regalano una nuova
realtà,
descritta nel
Manifesto dell’aeropittura.
La conquista del cielo, al suo avverarsi, è cantata in leggerezza di
lirica ispirazione anche dal grande Umberto Saba, che interviene a suo
modo a dare un contributo poetico alla vittoria sulla forza di gravità.
Lirico qual è, cantore della propria esperienza umana, il poeta triestino
non è incantato dalla velocità, né dalla potenza del mezzo aereo,
nemmeno lo celebra come simbolo esaltante di libertà, indipendenza,
infinito. Le ali che lo fanno «beato» sono quelle della poesia, grande
dono, di cui egli gode il privilegio.
Il 23 luglio 1911 a Trieste si festeggia il battesimo del volo: un
monoplano Bleriot, partito da Grado e pilotato dal triestino Giovanni
Widmer, attraversa il cielo e atterra sul molo del porto nuovo. Il poeta
guarda e scrive:
Vanno in su, dove il cielo è azzurro netto,
dove le nubi si vedon di sotto
Chi resta a terra agita il fazzoletto.
Partenza d’aeroplani è il titolo di questa rapida poesia, svelta come
l’oggetto dei suoi versi.
PAGINA 13
Alessandro Bruschetti, Aeropittura con Lago, 1932
Paolo Buzzi
Anton Giulio Bragaglia
Umberto Saba
Giovanni Widmer
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Testo di: Anna Bellio, Voli di Sogno nella letteratura italiana del novecento, I.S.U. Università Cattolica, 2007